Vivere negli abissi: quali sono le caratteristiche per vivere nelle profondità dell’oceano?
Nei punti più profondi dell’oceano è buio pesto, l’acqua è gelida e la pressione è insostenibile. Eppure, in qualche modo alcuni animali sopravvivono in questo ambiente estremo.
Il 26 marzo 2012, il regista James Cameron a bordo di un piccolo sommergibile raggiunse la profondità di 10.989 m, stabilendo un nuovo record mondiale. Aveva raggiunto in solitaria, il punto più profondo dell’oceano, la Fossa delle Marianne.
Fino a quel momento, Cameron era stato il terzo uomo, dopo Walsh e Piccard ad osservare il desolato paesaggio lunare della Fossa delle Marianne. Grazie però alle sue telecamere ad alta definizione, le immagini registrate da Cameron sono giunte sino alla superficie ed inviate successivamente nell’etere sino ad arrivare a noi. Anche gli scienziati hanno servato quelle immagini per cercare di saperne di più sul punto più “profondo” della terra.

Sino al 1800, poco si sapeva sugli oceani. Folclori e miti come il Kraken o ancora i racconti di Jules Verne che immaginava che nel cuore dell’oceano potevano nascondersi enormi mostri marini. Diversamente gli scienziati non concordavano con l’idea che il mare potesse ospitale anche a quelle profondità, descrivendo l’oceano come “inabitabile”.
Anche Socrate aveva descritto gli abissi: Il sale uccide la vita, non c’è vegetazione ne tantomeno nessuna forma di vita animale, solo sabbia e fango.
In epoca vittoriana, questa idea è stato sostenuta anche dallo scienziato Edward Forbes. Provando a studiare il Mar Egeo aveva concluso che la vita in mare cessasse di esistere intorno ai 550 metri.
Lo stesso anno in cui Darwin pubblico il suo “the origins of species”, il 1859, Forbes aveva pubblicato un suo trattato dove descriveva: Man mano che si scende in profondità gli abitanti del mare scompaiono pian piano nel blu, la vita si spegne, rimangono a malapena delle scintille.
Nel 1864 i naturalisti Michael e Georg Sars (padre e figlio) dragando i fiordi Norvergesi sino a circa 3000 metri descrissero i gigli di mare. Iniziando cosi l’esplorazione e la conoscenza degli animali degli abissi.
La scoperta dei gigli di mare portò una ondata di eccitazione nella comunità scientifica. Il mare profondo era allora abitato, in qualche modo alcune forme di vita erano riuscite ad adattarsi a quell’ambiente ostile. A quel punto l’idea che gli abissi potessero contenere forme di vita era troppo allettante per gli scienziati e non poteva essere ignorata.
Gli scienziati Britannici furono i primi ad andare alla scoperta degli abissi. Tra il 1872 e il 1876, la nave britannica HMS Challenger salpò per 127,653 mila km nel tentativo di catalogare tutte le forme di vita marine. E ‘stato un viaggio verso l’ignoto, proprio come le missioni Apollo del 20 ° secolo. In totale sono state scoperte 4.700 nuove specie di animali marini, tra cui anche qualche specie abissale. La stessa spedizione ha scoperto anche il punto più profondo dell’oceano. Un punto a sud del Giappone a forma di mezza luna profonda 4475 braccia (8184 metri), era il Challenger Deep conosciuto anche come Fossa delle Marianne. Quasi un secolo dopo furono Jacques Piccard e il tenente Don Walsh della US Navy che a bordo del batiscafo Trieste giunsero sino al fondo della Fossa delle Marianne. Comincia cosi una nuova era, alla scoperta del blu più profondo
Gli adattamenti dei “mostri” degli abissi
Le peculiarità e le severità ecologiche dell’ecosistema abissale richiedono adattamenti profondi alle specie di pesci che qui vivono.





Generalmente il cibo è scarso alle grandi profondità e quindi deve essere sfruttata al massimo ogni occasione per nutrirsi, da qui i denti spaventosi, le bocche enormi e l’aspetto grottesco di specie come Melanocetus johnsonii, Chauliodus sloani o Idiacanthus. Lo stesso problema alimentare fa sì che molti pesci abbiano bocche e stomaci estensibili che li rende capaci di inghiottire perfino prede più grandi di loro come avviene in Saccopharynx flagellum o nel noto Chiasmodon niger.
Altri pesci, come l‘Eurypharynx pelecanoides, hanno evoluto bocche enormi attraverso cui filtrare grandi quantità di acqua (la specie si nutre di plancton).
La scarsa quantità di luce presente alle medie profondità fa sì che molte specie abbiano evoluto occhi telescopici rivolti verso l’alto con cui possono vedere le prede stagliarsi contro il debole chiarore proveniente dall’alto come accade in Dolichopteryx binocularis ed altri Opisthoproctidae o in Gigantura.
Uno degli adattamenti più noti al buio degli abissi è la presenza di fotofori, ovvero di organi in grado di produrre luce. Sono presenti in quasi tutte le specie di pesci di profondità ed hanno sia funzioni di riconoscimento intraspecifico (come avviene, ad esempio, nei Myctophidae) che di “esca” per attrarre le prede come nei Ceratiidae.
Altri adattamenti riguardano la riproduzione e data la scarsissima densità di popolazione l’incontro tra i sessi è molto difficile. Alcuni Lophiiformes hanno risolto il problema in maniera sorprendente: in queste specie infatti il maschio, una volta trovata una femmina, si fissa con i denti al suo ventre e diventa un vero e proprio parassita mettendo in collegamento il suo sistema circolatorio con quello della partner che, a questo punto, deve provvedere al sostentamento di entrambi.
Talvolta anche più di un maschio si attacca alla stessa femmina: essi sono molto più piccoli rispetto a questa, essendo lunghi pochi centimetri. Data la scarsità di calcio nelle acque profonde (il carbonato di calcio diventa solubile in acqua a pressioni molto elevate) spesso le ossa dei pesci abissali sono sottili e decalcificate. Molte specie hanno inoltre prolungamenti filamentosi dei raggi delle pinne, con funzioni tattili e di orientamento nell’oscurità
Mostri o timidi innamorati? Cosa si nasconde nelle tenebre degli oceani?
I pesci abissali sono rari da avvistare e non si ritrovano mai in gruppo, ma per questi animali degli abissi trovare il partner è di fondamentale importanza. Ma nel buio delle profondità marine andare alla ricerca di compagnia è veramente difficile. Allora entrano in funzione dei messaggi luminosi che oltre ad essere un’esca per le prede sono delle chiare ed inequivocabili dichiarazioni d’amore.
John Forbes, luminare delle scienze del mare vissuto nel 1800 affermava che dopo i primi 100 metri la vita in mare cessava. L’abisso era visto come un deserto nero dove cessavano anche le correnti e che le temperature precipitavano in modo cosi rapido da sbarrare la strada alla vita in mare. Ma a distanza di un secolo, nel 1930, William Beebe, un naturalista americano, riusci a superare la barriera dei 900 metri di profondità con un batiscafo in acciaio, in un tratto di mare a poche miglia dalle isole Bermuda. Beebe racconta di guizzi di luce, sfavillii, bagliori e scintille che scoppiettavano come fuochi d’artificio. Si rese conto che gli artefici di quei giochi pirotecnici erano dei pesci degli abissi. Nella sua immersione non ebbe la possibilità di capire di che pesci abissali si trattasse. 30 anni dopo lo fece Jacque Piccard con la sua spedizione nella fossa delle Marianne a – 11.521 metri , a bordo del batiscafo trieste.

Piccard racconta <Il fondo è di un fango bianco-grigio…vedevamo attraverso l’oblò di plexiglass accendendo i fari. L’acqua era limpidissima, la temperatura era di 3.5°C, invece all’interno del batiscafo vi erano 8-10°. Rimanemmo sul fondo venti minuti. Fummo inoltre straordinariamente fortunati perché potemmo vedere due animali, un gambero e una specie di sogliola. Quest’ultima potei osservarla per circa un minuto. Non aveva l’aspetto di un pesce abissale (…) ma era proprio come una sogliola comune, lunga una trentina di centimetri, bianca. Nuotava adagio, vicino al fondo, forse in cerca di cibo, poi sparì nel buio, oltre il raggio della nostra lampada>. Questa scoperta ha destato un grande interesse nel mondo dei biologi marini perché mai (…) si era saputo che a tali profondità vivessero animali marini superiori.>
Da allora si comincio ad aggiungere alla interminabile lista di specie marine, tutti quegli animali che vivevano negli abissi e che non erano mai stati osservati dall’occhio umano.

Strane, stranissime creature abissali che si sono adattate a vivere in un ambiente cosi particolare, in un ambiente freddo e buio, privo di ripari, vivendo sempre in cerca di qualcosa. Un bagliore o uno scintillio che possa essere una preda o un partner.
Pesci strani, abissali carnivori, spesso necrofagi o caprofagi, che hanno assunto sembianze mostruose per vincere la corsa con l’evoluzione. Bocche grandi, armate di denti enormi e aguzzi, occhi grandi e strane appendici lungo tutto il corpo. Insomma dei piccoli draghi marini che nella storia hanno sicuramente ispirato storie mitologiche e leggende. E poi quella luce, una luce che viene emessa come fa un lampeggiante che indica attenzione. Si, perché nelle profondità marine imbattersi in un predatore abissale non è facile, allora il predatore non puo’ farsi sfuggire l’occasione di un pasto. L’evoluzione li ha allenati a cio’. “Se trovi una preda nel deserto nero degli abissi non puoi certo fartela scappare !!!”

La luce di questi pesci abissali, è dovuta al fenomeno della Bioluminescenza. Sulla terra ferma sono soltanto le lucciole e altre poche specie ad averne il dono. In mare invece il fenomeno della biolominescenza è molto comune. Per esempio il pesce lanterna, un pesce degli abissi della famiglia dei Myctophidae possiedono delle cellule speciali che riescono a produrre luce. Queste cellule prendono il nome di fotofori. Nei fotofori avviene una vera reazione chimica che da origine ai bagliori luminosi.
Non tutti i pesci abissali sono delle “centrali elettriche”
Ci sono alcune creature degli abissi che per avere la luce si limitano ad ospitare dei batteri luminosi, che vivono in simbiosi con l’ospite e che producono la luce per il pesce. Comunque sia, che brillino di luce propria o che prendano la luce in prestito questi pesci posizionano le “lampadine” in posizioni strategiche in maniera tale che possano servire a piu’ scopi. Ad esempio queste lampadine abissali hanno degli interruttori che utilizzano in caso vi sia un predatore in zona, rendendosi cosi invisibili.

Mi illumini d’immenso Cosi i pesci abissali si “innamorano”!
I bagliori emessi da questi pesci abissali, sono anche un ottimo strumento di comunicazione che i pesci abissali utilizzano come richiamo sessuale. Il luccichio dei fotofori è un invito a nozze per i partner, un vero e proprio rituale di corteggiamento che unisce la coppia. Una volta insieme alcune specie non si lasciano piu’, creando una sorta di legame vitale tra la coppia. Nel caso di ceratias holbolli e di edriolynchus schmidtii, c’è un grande dismorfismo sessuale : il maschio è molto piccolo e la femmina invece ha dimensioni mastodontiche. Non appena il maschio trova la femmina comincia a pizzicarla sotto la pelle, si crea una piccola ferita e li il maschio si salda alla femmina diventando quasi un unico esemplare. Il canale alimentare del maschio si atrofizza e cadono tutti i denti. I canali alimentari e alcuni vasi sanguigni dei due individui entrano in collegamento e da quel momento sarà la femmina a nutrire il maschio. Di tutte le forme, taglie e dimensioni sono spesso dei pesci brutti da vedere ma che hanno delle strategie sorprendenti.

La vita negli abissi più profondi
Stiamo parlando dell’ ecosistema più ampio ma anche meno studiato del pianeta. Gli abissi e la vita che si cela nel buio delle profondità a quanto pare sono meno conosciuti della luna. Bui, freddi e pericolosi.

La vita negli abissi
Fino a 150 anni fa si riteneva che non poteva esistere vita negli abissi sotto i 200 metri, dato che la luce solare, necessaria per la fotosintesi delle piante, veniva assorbita completamente dalla colonna d´acqua. Quando furono posati i primi cavi telegrafici negli oceani alla fine del 19° secolo e durante le regolari ispezioni tecniche, fu scoperto con grande stupore che i cavi erano stati colonizzati da piccoli bivalvi. Le prime investigazioni scientifiche della vita negli abissi sono state condotte durante la spedizione della “Challenger“, nave britannica che dal 1872-76 circumnavigò la terra e colleziono 240 campioni del fondale marino. Una sensazione fu la scoperta di campi e sorgenti idrotermali nelle profondità marine nei pressi delle isole Galapagos nel 1977. I fluidi che sgorgano dalle sorgenti possono raggiungere 400°C e sono colorati neri per via dei minerali dissolti in essi. Questi composti chimici sono usati da batteri per ricavare tramite chemosintesi energia, i batteri formano a loro volta la base di una catena alimentare che comprende molluschi, policheti, artropodi e pesci. Il primo ecosistema conosciuto completamente indipendente dalla luce solare.
La vita negli abissi più profondi
Un’altra rivoluzione avvenne nel 1983, quando nel golfo del Messico furono scoperte delle sorgenti di fluidi freddi (con temperature di pochi gradi sopra lo 0), composti d’idrogeno solforato, metano e idrocarburi. Anche qui si era sviluppata una comunità di organismi particolari. Successive ricerche, soprattutto negli ultimi due decenni, hanno rilevato almeno undici tipi di comunità con diverse specie di organismi, una diversità determinata apparentemente dall´isolamento geografico e forse anche dal tipo di sorgente colonizzata.
Per le creature che vivono negli abissi la pressione preme da ogni parte e, come l’aria che grava su di noi, non reca loro disturbo. I loro tessuti si sviluppano in quell’ambiente, e i fluidi che si trovano all’interno del corpo acquistano una pressione tale da creare equilibrio con la pressione esterna. In queste zone, per via dell’oscurità, manca completamente la vita vegetale. Il cibo perciò “piove” dagli strati superiori. Gli organismi della fossa della Marianne sono per la maggior parte lunghi pochi centimetri: attinie, policheti, oloturoidei (Elpidia, Myriotrochus, Scotoplanes), molluschi bivalvi, crostacei isopodi, e anfipodi. A profondità minori (fino a 5-6 mila metri) c’è una grande varietà di pesci: dalla rana pescatrice abissale al pesce tripode, al pesce pellicano.