Ci sarebbero tutti gli elementi per tirare fuori una sceneggiatura da premio Oscar: una mostruosa isola nata dalla plastica gettata in mare da decenni di incuria umana; un eco-paladino alto, bello, occhi azzurri, ricco, interessato più ai destini della Terra che dell’impero economico di famiglia; una barca costruita solo di bottiglie di plastica e pannelli solari su cui veleggiare fino al centro dell’oceano, nella speranza di convincere il mondo a darsi finalmente una svegliata. Tutto questo è realtà. Il rampollo è David de Rothschild e, con il suo “veliero” Plastiki, sta cercando di guidare l’occhio dei media e dei governi sul Pacific Trash Vortex e su un dramma che i biologi marini denunciano, invano, da anni: nei mari terrestri, la quantità di rifiuti plastici ha raggiunto livelli impressionanti, in alcune zone anche superiori al plancton, elemento essenziale per il cerchio della vita marina.
L’isola dei rifiuti galleggianti
Per percorrerla in aereo servirebbero oltre cinque ore. Il Pacific Trash Vortex (o Vortice orientale d’immondizia) è una massa informe, profonda 30 metri, larga due volte gli Stati Uniti d’America, pesante 3,5 milioni di tonnellate, che galleggia in mezzo al Pacifico, divisa in due parti: una a sud-est del Giappone e un’altra a nord-ovest delle Hawaii, che talvolta, roteando, lambisce le coste hawaiane e californiane, ricoprendole di strati di plastica alti fino a tre metri. Da dove vengono i materiali di cui è composta l’isola non è chiaro. Ma è certo che tutti quei rifiuti plastici si sono aggregati tra loro grazie all’azione di una corrente oceanica – la North Pacific Subtropical Gyre – che si muove in senso orario.
«Tra l’altro – spiega Franco Andaloro, dirigente di ricerca dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) – i rifiuti solidi galleggianti sono soltanto l’evidenza di un fenomeno più grande. I fondali marini sono infatti pieni di macroinquinanti. Anche nel nostro Mediterraneo, quando i pescatori individuano nuove aree di pesca, si trovano costretti a “spazzare” i fondali dai rifiuti. In Libano, ad esempio, a causa delle numerose discariche costiere, ci sono giorni in cui i rifiuti umani costituiscono l’80% di ciò che viene catturato dalle reti dei pescherecci».
Per capire la portata del problema, è bene ricordare un altro paio di dati: uno studio dell’oceanografo statunitense Charles Moore, già dodici anni fa, aveva rilevato che nell’area del Pacifico in cui è sorta l’isola di Immondizia, per ogni chilo di plancton ce ne sono sei di plastica. In più, l’ultimo rapporto dell’Unep (l’agenzia Onu per l’Ambiente) ha calcolato che ogni anno vengono immessi in mare più di 6 milioni di tonnellate di plastica (il doppio del peso del Pacific Trash Vortex).
Disastro ambientale e sanitario
Ma l’inquinamento degli oceani è un grave rischio sanitario, oltre che ambientale. «Le plastiche sparse in mare – prosegue Andaloro – rilasciano contaminanti chimici che, attraverso il plancton e gli altri pesci, possono di fatto entrare nella catena alimentare e venire quindi assimilati anche dall’uomo». Con molteplici conseguenze sulla nostra salute. Alcuni ricercatori delle università di Oslo e Tokyo, hanno recentemente sviluppato una teoria secondo cui l’accumulazione di agenti chimici nell’organismo umano provocherebbe una “disregolazione estrogenica”. Le conseguenze: danni permanenti agli organi riproduttivi maschili e femminili nonchè danni allo sviluppo fetale.
Una risposta
Se fosse veramente interessato alle sorti del Pianeta, dovrebbe come prima cosa dire all’amico di famiglia, Rockefeller, di smettere di fabbricare veleni, di estrarre petrolio e modificare le sementi che Madre Natura ha già fatto perfette.