È opinione comune, almeno in linea teorica, che tra gli obiettivi della ricerca scientifica ci sia il proposito di migliorare la vita della comunità ed incentivarne il progresso. Forse era proprio questo il desiderio di Nathaniel Wyeth, l’ingegnere americano che nel 1973 trovò nel PET il materiale ideale per l’imbottigliamento di bevande gasate, evitando il rischio di piccole esplosioni indesiderate.
Offrire al largo consumo un materiale economico e durevole nel tempo (nonché adatto ad una produzione di massa) poteva sembrare davvero allettante per una popolazione in costante crescita.
A questo iniziale boom dei consumi ne seguì un altro, e poi un’altro ancora, portando l’accumulo di bottiglie in plastica a livelli vertiginosi. Così la curva dei consumi divenne esponenziale e tutt’oggi sembra essere inarrestabile, tanto da indurci a pensare che la classica bottiglia in PET sia un elemento imprescindibile della nostra quotidianeità.
Proprio uno dei suoi maggiori pregi, la resistenza al deterioramento nel tempo, sembra essersi ritorto contro il pianeta – un esempio sono le numerose isole di plastica fluttuanti negli oceani.
In poco più di 4 decadi il PET ha messo a repentaglio un ecosistema sviluppatosi in millenni, creando un danno per il pianeta che solo adesso cominciamo davvero a comprendere. È proprio di quest’anno lo studio che ha creato molto sconcerto affermando che l’83% dell’acqua sgorgante dai nostri rubinetti è contaminata da microplastiche. Ma questo non salva affatto la bottiglia in PET da questa contaminazione, dato che spesso le fonti sono le stesse e l’esposizione prolungata al sole di casse d’acqua può aumentare la mole di particelle.
Lasciando ai ricercatori il tempo di rilevare le cause di questo problema, possiamo già identificare alcune delle vie principali che portano la plastica ad inficiare la qualità delle nostre acque.
Uno dei canali di maggior portata passa per il suolo, dato che le infiltrazioni provenienti dalle discariche (a volte insufficienti a contenere l’enorme mole di plastica depositata) generano un pericoloso rilascio di tossine nel terreno circostante. Queste sostanze nocive possono poi raggiungere falde acquifere e fiumi, da lì l’oceano.
A questo si aggiunge l’ingente quantità di oggetti in plastica semplicemente dispersi nell’ambiente, preda degli agenti atmosferici e accumulatisi al largo degli oceani negli anni.
Oltre che sull‘ambiente, questo processo di contaminazione si riversa tanto sulla fauna marina (inclusi i volatili) quanto sull‘uomo, andando ad immettere sostanze nocive nella catena alimentare.
Come ovviare a questo problema?
La strada è in salita, ma un primo passo sta in un consumo più consapevole della plastica. Quando possibile, effettuando test appositi in caso di dubbi, si può consumare l’acqua del rubinetto che, qualitativamente, non è inferiore a quella imbottigliata (dovendo sottostare a controlli più rigidi). Nonostante si sia già citato lo studio che incrimina l’acqua corrente come contaminata da plastica, va anche detto che è proprio l’uso smodato di plastica ad incrementare la possibilità di contaminazione. Se l’acqua del proprio domicilio è priva di queste microplastiche, l’alternativa al PET è più che attuabile.
Per avere una panoramica, con dati relativi al 2016, si può far riferimento a quest’infografica che TradeMachines ha di recente pubblicato per sensibilizzare i propri utenti riguardo il tema.
La plastica vive la sua forza come una condanna: nata per durare a lungo, ma acquistata per esser subito gettata via.
Una sola, marginale, osservazione di natura ‘scientifica’.
Anche qui ho notato il libero uso dell’aggettivo ‘esponenziale’ per indicare una crescita vertiginosa. Sarebbe bene tener presente che la funzione esponenziale non è necessariamente crescente, ma può anche essere decrescente. Dipende dal suo argomento … .
Il ritorno al vuoto a rendere potrebbe contribuire a contenere il problema. Vuoto a rendere valido anche per i contenitori in pet. Altra via potrebbe essere quella di aumentare le casette delle acque, diversi comuni le stanno adottando con ottimi risultati. Ancora si potrebbe incentivare il mercato dello sfuso, dai legumi ai detersivi. Per non parlare infine di un migliore utilizzo della risorsa idrica incentivando sistemi di recupero e riutilizzo delle acque dalle abitazioni private agli hotel: ad esempio l’acqua che usiamo per la doccia potrebbe essere riutilizzata per lo sciacquone e via discorrendo. Le tecnologie ci sono, i mezzi pure come sempre ci vorrebbe un pò di volonta.