La pesca “no-kill” o “catch and release“, che consiste nel rimettere in acqua il pesce subito dopo la cattura, è una pratica che sta guadagnando popolarità. Tuttavia, resta aperta una domanda cruciale: quali sono le reali probabilità di sopravvivenza di un pesce una volta rilasciato?
Sopravvivenza dei Pesci e Fattori Coinvolti
La sopravvivenza dei pesci dopo essere stati rimessi in acqua dipende da molteplici fattori. Prima di tutto, le condizioni ambientali locali giocano un ruolo determinante. La temperatura dell’acqua, ad esempio, è fondamentale poiché i pesci, essendo pecilotermi (la cui temperatura corporea varia con quella dell’ambiente), possono subire uno shock metabolico a causa dei bruschi cambiamenti di temperatura durante la cattura. Studi scientifici, come quello pubblicato nella rivista Reviews in Fisheries Science, mostrano che la mortalità dei pesci aumenta con l’aumento della temperatura dell’acqua, soprattutto a causa della riduzione dei livelli di ossigeno disciolto, che rende difficile il recupero per i pesci rilasciati.
Anche il tipo di amo utilizzato può influenzare la sopravvivenza dei pesci. Gli ami singoli, doppi o tripli possono provocare danni di gravità variabile, con gli ami multipli che tendono a prolungare il tempo di manipolazione del pesce. L’uso di ami con ardiglione (una piccola punta che impedisce al pesce di staccarsi) può ulteriormente complicare la rimozione, aumentando il rischio di lesioni.
Un altro fattore da considerare è il tipo di esca impiegato. L’uso di esche vive, ad esempio, può comportare una mortalità maggiore rispetto alle esche artificiali, come mosche o esche in plastica, poiché le esche naturali vengono spesso inghiottite più profondamente dai pesci. Tuttavia, il fattore più critico è la gravità e la posizione delle lesioni causate dall’amo, che hanno un impatto diretto sulla sopravvivenza del pesce.
Altri Fattori di Mortalità
Oltre a questi elementi, altri fattori contribuiscono alla mortalità dei pesci rilasciati, come la profondità di cattura. Una ricerca pubblicata nel 2011 su Transactions of the American Fisheries Society ha evidenziato mortalità significative dovute a rapidi cambi di pressione quando i pesci vengono portati in superficie e poi rilasciati.
Secondo il professor Culum Brown dell’Università Macquarie in Australia, i pesci sono adattati a vivere in condizioni di gravità zero e non possono facilmente adattarsi alla gravità terrestre. Sollevarli dall’acqua può causare gravi lesioni interne, come la rottura della vescica natatoria o emorragie interne, che possono essere fatali.
Infine, i pesci possono soffrire di deficit comportamentali causati dallo stress della cattura, manipolazione ed esposizione all’aria, riducendo la loro capacità di procurarsi cibo o evitare i predatori. Studi hanno dimostrato che questi disturbi possono portare a un aumento della predazione sui pesci stressati.
Dibattito tra Sostenitori e Critici
L’efficacia della pesca no-kill come pratica di conservazione è oggetto di dibattito. Da un lato, si sostiene che il no-kill è “una forma di rispetto per l’animale”, mentre per altri è una strategia per preservare le popolazioni ittiche e proteggere le specie sensibili. Robert Arlinghaus, ricercatore presso il Leibniz Institute of Freshwater Ecology and Inland Fisheries, ritiene che la pesca no-kill riduca la mortalità associata alla pesca e promuova la sostenibilità. Tuttavia, riconosce che la pratica può essere meno efficace per i pesci catturati a grandi profondità, dove la mortalità può essere molto elevata a causa della decompressione.
Mentre alcuni esperti vedono nella pesca no-kill una soluzione sostenibile per la gestione delle risorse ittiche, altri sottolineano i danni inevitabili causati ai pesci, anche quando vengono rilasciati. Le probabilità di sopravvivenza variano enormemente, da 0% a 89%, a seconda delle specie e delle condizioni di cattura. In definitiva, la questione resta aperta e dipende in gran parte dalle pratiche adottate dai pescatori e dalle condizioni specifiche dell’ambiente acquatico.