4° puntata – DI GIORNO– cadenza settimanale – autore Stefano Duranti Poccetti
La mattina dopo mi svegliai piuttosto presto. Il gatto aveva cominciato a miagolare accanto alla porta. Aprii e quello corse subito fuori: iniziava la caccia al topo. Mi gettai un po’ d’acqua sul viso e mi vestii con gli stessi abiti del giorno prima. Non sapevo se quello che avevo vissuto fosse reale o frutto di fantasia. Ero veramente curioso quindi di sapere come sarebbe proseguita la mia avventura sulla Gioconda.
Uscendo, mi ritrovai sul ponte e trovai un’atmosfera molto diversa da quella a cui avevo assistito. I venditori di contrabbando se ne erano andati. La giornata era bellissima e assolata, le acque calme. Questo mi permise di ammirare perfettamente il transatlantico. I fumaioli erano di un rosso sbiadito, mentre il pavimento del ponte era di un legno che cominciava a perdere di linfa. Nel complesso, si percepiva d’essere in un bastimento che in passato aveva goduto di grande fasto, fattore che lo rendeva spettrale e anche, per certi aspetti, magico. In ogni modo, si respirava lì un raro spirito di libertà e distensione. Bambini giocavano a calcio nella parte centrale e nessuno osava fermarli. Era come se in quella nave non ci fossero regole, se non quelle dettate dal cuore.
Ho passeggiato per qualche ora in lungo e in largo. A dire il vero non ho trovato niente delle zone divertimenti e delle piscine che avevo viste elencati tra i servizi prima della partenza. Provai a ricercare anche la sala da gioco, ma non riuscii a ritrovarla. Quella nave era un immenso insieme di vicoli e cunicoli senza segnalazioni. Solo un attento conoscitore poteva penetrarla a fondo. Ci sarebbe forse voluto il filo di Arianna per non perdersi.
Si avvicinava l’ora di pranzo e cercai in giro quei ristoranti che avevo letto nel programma. Nessuno conosceva i nomi da me elencati. Poterono soltanto indicarmi la presenza di una mensa. Quando arrivai lì mi trovai all’interno di una sala enorme. C’erano ampi tavoli e lunghissime panche di legno. Un’infinità di persone erano lì assise. Parlavano ad alta voce, ridevano di gusto sorseggiando vino rosso. La cosa che soprattutto mi colpì, fu il loro abbigliamento. Alcuni erano vestiti da semplici marinai, altri parevano venuti dal Settecento o l’Ottocento, con parrucchini in testa ed eleganti marsine. Alcune donne portavano degli strettissimi corsetti.
Non c’erano tavoli separati l’uno dall’altro, tutti mangiavano insieme. Mi sedetti su uno dei posti liberi e mi furono servite le uniche pietanze disponibili, vale a dire purè e salsicce, accompagnate da vino della casa – sicuramente tra quelle persone non c’erano vegetariani. Devo ammettere che, nonostante l’accoglimento spartano, mangiai benissimo e i camerieri continuavano con le portate fino alla completa sazietà.
Fino a quel momento non avevo parlato con nessuno. Accanto me c’era un uomo di circa sessanti anni, vestito con una vetusta redingote e con un borsalino in testa. “Lei è nuovo?”, mi chiese. Gli dissi di sì. Parlammo un po’. Mi raccontò un po’ di sé e della nave, parlandone come se ci vivesse da sempre. Infine mi disse: “Se sei nuovo, allora devo mostrarti una cosa molto importante.” Così ci alzammo e camminammo per un lungo tratto, finché non arrivammo presso una botola. L’alzò e scendemmo attraverso delle scale a chiocciola. Ci trovavamo in una sorta di stiva, dove potei intravedere pile di bottiglie di whisky e di marsala.
Era quasi buio e allora l’uomo, che si chiamava Peter, illuminò con la torcia una delle pareti, dove apparve il quadro con la Gioconda di Leonardo. Mi sembrò una copia veramente ben fatta, ma quello affermò: “Tutti credono che la vera Monna Lisa sia al Louvre, invece è questa l’originale. Ora sai perché questa nave porta tale nome.” Mi sembrava assurdo quello che stava dicendo. “Leonardo non l’aveva donata al re di Francia?”, chiesi. Allora, sedendosi su un vecchio sgabello da pianoforte, con lo strumento accanto che vedeva ormai tutti i tasti scomposti e le corde frantumate, mi narrò la storia del quadro.
Dopo che la preziosa opera era stata donata a Francesco I, questa era stata comprata per una somma spropositata dal barone Leopold, proprietario di una grande compagnia di navigazione. Il quadro, dopo la morte del barone, era stato costudito nella villa dei suoi avi, fin quando, il grandammiraglio Juan, proveniente da quella stessa famiglia, tramandatasi per generazioni e generazioni, non decise di nasconderlo nella stiva di quella nave, che in suo onore aveva preso proprio il nome di “Gioconda”. Naturalmente tutta questa storia è un segreto di stato e solo pochissimi sono a conoscenza della verità, tanto è vero che ancora si crede che l’opera originale sia al Louvre.
Era per me impossibile credere a quelle parole pronunciate con estrema convinzione. Eppure, osservando il quadro, ci trovavo realmente qualcosa d’esemplare, un tocco ancora più emozionante rispetto al soggetto che avevo visto a Parigi. Adesso potevo contemplare quella donna in solitudine, lasciandomi inebriare da quello sguardo intramontabile senza alcun disturbo.
Usciti da quel tugurio, ringraziai l’arcana figura e mi misi a bighellonare per la nave. Arrivai al parapetto, mi accesi un sigaro e mi appoggiai coi gomiti. L’orizzonte era interminabile e mi perdevo in quell’infinito. Ormai mi stavo abituando così tanto a quell’in-consuetudine da cominciarla a percepire come la vera realtà. Osservando in lontananza, ripensavo al mio passato, che adesso mi sembrava più distante che mai. Quel viaggio mi stava portando a una netta separazione da quello che ero stato fino ad allora. Mentre parlavo un piccolo uccellino mi si posò sulla spalla: pareva una gazza ladra. Non mi era mai accaduto niente del genere in vita. Secondo i marinai, quando si vedono uccelli durante la traversata, significa che la terra è vicina. Chissà qual era la costa più prossima, dopo un giorno di viaggio? Ancora ne avevo molti da passare in quel naviglio prima di arrivare a destinazione, in Cina. Quel sigaro, che mi era stato venduto come italiano, era buonissimo e me lo assaporavo con grande calma, in uno stato d’estasi. D’improvviso sentii sfiorarmi la schiena in modo dolce e delicato. Mi voltai e trovai lei.